mercoledì 17 ottobre 2007

Riflessioni/ Parlare la lingua di pochi

Quando ero più piccolo, mi piaceva l'inglese per le sue parole brevi, il francese perché ci sono più X e Y di un'equazione matematica, il tedesco per i pallini sulle vocali. Col tempo, sono stato incuriosito dall'islandese per la sua immobilità, dal turco per l'armonia e dal croato per la sua flessibilità. Ma in questi giorni sto realizzando cosa significa parlare italiano.
Tra le grandi nazioni europee, l'Italia è l'unica a parlare una lingua esclusiva. L'Inglese fa parlare il mondo intero, la Spagna ha il Sudamerica, il Francese ha ancora un appeal internazionale, sia come seconda lingua, sia nelle ex colonie, e il Tedesco, almeno in Europa, oltre che essere parlato da quasi 100 milioni di persone, è lingua di cultura in molti Paesi. Perfino il Russo è uno strumento di comunicazione che supera i confini nazionali. Noi Italiani, invece, siamo un buon numero (circa 60 milioni), ma parliamo una lingua purtroppo provinciale.
Nulla di male in tutto questo. Il problema è culturale. L'Italia è un Paese poco conosciuto in modo diretto dal resto del mondo. Se si escludono le esperienze vacanziere, nessuno legge i nostri libri, nessuno ascolta la nostra musica, nessuno conosce i nostri giornali. In poche parole, il nostro immaginario collettivo, tutto il nostro sistema di riferimenti, è perduto al di fuori dell'Italia. E siccome è sconosciuto, mi sto rendendo conto che per molti stranieri è come se l'Italia non producesse nulla di culturale. Appariamo come un Paese vecchio, con città piene di arte, ma in qualche modo "out", fuori dai circoli culturali internazionali. Non c'è scena in Italia, chi mai si trasferirebbe in un Paese con una lingua poco spendibile sul mercato mondiale?
Pensavo che tutto questo fosse nostro demerito. Ma ora che studio in un prestigioso istituto europeo, dunque, con delle menti che si presumono eccellenti, sto rivedendo certi nostri assunti vittimistici. A leggere uno dei miei blogger preferiti, Zarathustra, l'Italia ne esce distrutta, come un Paese di ignoranti subumani. Ma se la sua storia personale si riferisce soprattutto al nordest, alla pianura, la mia è quella di essere vissuto nella capitale, con amici a Firenze, Bologna, Milano e Torino. A Roma con i miei coetanei parlo di politica, andiamo alle mostre, si va spesso al cinema, ci si scambia dei libri. Forse non siamo dei giovani italiani medi, ma pensavo che il nostro livello fosse europeamente regolare.
Qui invece mi sembra di scoprire profonda ignoranza. E non parlo solo di Svizzeri, i miei compagni di classe vengono da tutto il mondo. Se chiedi se hanno letto un libro o visto un film, ti guardano esterrefatti appena ti allontani dal blockbuster. Molti svizzeri alemanni (cioé di lingua tedesca) giudicano la preferibilità di una città in base a parametri quali velocità dei mezzi pubblici, pulizia delle strade, accessibilità del lago. Ma di accessibilità alla cultura non ne parlano! E non sono dei vecchi decrepiti, ma ragazzi di 20 anni.
In Svizzera lo studio della storia è semiopzionale. Al liceo, ogni anno, si studia un tema diverso: es: caccia alle streghe, sviluppo dei film western. La storia antica si studia a 11 anni e poi mai più.
L'immagine dell'Italia all'estero è quella di un Paese ignorante. Se per molti aspetti è vero che è un Paese conservatore e chiuso di mentalità, è anche vero che è capace di esprimere una ottima elite culturale. Credevo che questo fosse vero di ogni Paese, ma ora non lo so più. Penso che la nostra cultura, nella nostra lingua, la parliamo tra noi e che fuori arriva ben poco. Siamo importatori netti di conoscenza.