Uno dei miei primi ricordi della Storia, vista alla tv da bambino, è quell'agosto del 1991, quando un grande palazzo bianco-grigio con tante finestre nere era circondato da carriarmati e la mia famiglia si agitava a tavola durante il pranzo.
Era il golpe domato da Eltsin, che incorniciava la fine dell'URSS. Pochi mesi dopo sarebbe nata la CSI e poi la Federazione Russa tout court. Oggi Eltsin è morto.
Dieci anni fa visitai Mosca e San Pietroburgo, la sua Russia desolata in preda alla crisi. Tram sferraglianti su asfalti divelti. Uomini sdraiati sui marciapiedi davanti agli spacci, la bottiglia di vodka tra le braccia come cuscino. La Neva che scorreva triste sotto la fortezza e la stella rossa luminosa sulla cima del Cremlino.
La Russia di Eltsin non esiste più. La Russia era stracciona e ubriaca, bonaria e disillusa. Aveva la stessa personalità di Eltsin. Il babbau sovietico era stato abbattuto, per poi rivelarsi un gigante dai piedi d'argilla, povero e allo sbando.
E mentre l'Occidente si stringeva ad un'America clintoniana più forte che mai, allo stesso tempo sperava che il disordine di Eltsin fosse la culla della democrazia. Lo speravamo tutti. Una Russia non più arrogante, dal fianco scoperto, che accogliesse lezioni di libertà da ovest.
Sappiamo tutti come è andata. Eltsin ha permesso che la fine dell'URSS si trasformasse nella più grande compravendita della storia, con nuovi oligarchi a prendere il posto del politburo e i servizi segreti del Putin in erba a dirigere la manovra nell'ombra.
Una Russia naif che non esiste più o forse mai è esistita. Una Russia che ricordava tremendamente il suo presidente. Un passeggero ubriaco di una nave nella tempesta, la boccia di vodka nel pugno, a passi incerti sul ponte che rolla. Quando l'onda si alza più forte, il passeggero ubriaco cade in mare.
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